Nel 2024 si celebrano 150 anni dalla nascita di Guglielmo Marconi, l’italiano che l’8 dicembre 1895 per primo inviò un segnale senza l’utilizzo dei fili, dando il via all’era delle radio telecomunicazioni. Da allora si sono susseguite una raffica di scoperte, una serie di piccole e grandi rivoluzioni nel settore tecnologico che hanno letteralmente rivoluzionato la comunicazione: dalla radio, alla tv, fino ad Internet, alla messaggistica istantanea e ai social media. Ripercorrerne la storia non avrebbe molto senso ora: chi ha i capelli bianchi ha iniziato cercando le frequenze della radio e oggi carica stories sui social; quanto ai giovanissimi, per spiegare loro com’era il mondo prima di Internet darebbe necessario organizzare un corso accelerato di storia antica. Già, non contemporanea. Dieci anni nel settore delle telecomunicazioni sono praticamente un’era geologica. Quel che appare doveroso oggi è concentrarsi sui contenuti più che sui contenitori, sui messaggi più che sugli strumenti. Di certo infatti a muovere l’acume e l’ingegno dell’italiano Marconi fu anche il desiderio di permettere di comunicare di più e meglio. Ma la domanda è, comunicare che cosa? È qui che subentra la responsabilità sociale di chi comunica, oggi più che mai. Attualmente si potrebbe dire che il contenitore ha superato il contenuto. Basti pensare che on line vengono indicati i secondi necessari per leggere quel contenuto: fruire veloce, l’essenziale. Basti pensare che la comunicazione sul web e sui social è governata da algoritmi e dalla legge del mercato e siamo al limite del comico se pensiamo che il web (e derivati vari) sia sinonimo indiscusso di libertà. Nella cultura comunicativa attualmente diffusa, viene considerato più importante un titolo da tanti clic perché sensazionale o un titolo corrispondente alla realtà o relativo a temi meno accattivanti? E chi prova a spiegare con calma le cose è un vincente o un perdente rispetto a chi “strilla”, sui social o in televisione? Non oso addentrarmi nelle sfide che porrà l’intelligenza artificiale nel settore della comunicazione. Sia chiaro, nessuno vuole fermare il progresso, ci mancherebbe (anche se al senso del termine progresso ho dedicato un’intera tesi di maturità… ). Mi limito solo a evidenziare che gli strumenti nuovi devono essere al servizio della democrazia e della verità (intesa come oggettività, verifica dei fatti, assenza di menzogna sapendo di mentire) e ad oggi, con un po’ di onestà intellettuale, occorre ammettere che non sempre è così. Ma da cristiani cattolici, noi tutti, nel mondo della comunicazione a 360 gradi, come ci stiamo? A testa alta? A testa bassa? Ci preoccupiamo di essere giudicati perdenti o abbiamo il coraggio di diffondere il messaggio del Vangelo e, di conseguenza, della Dottrina Sociale della Chiesa? Gli “haters” ci fanno paura, ci inibiscono? La Chiesa sa abitare il digitale? … Questo non tanto perché debba esserci per forza nel digitale, ma perché lì, è un fatto, ci sono le persone e molto spesso anche i nostri ragazzi, dunque non ci si può sottrarre a questa sfida. Abitare il digitale non significa abbandonare però l’incontro fisico, che deve restare, al di là della tecnologia, la forma di comunicazione principe dell’Uomo, se vuole restare Uomo. E a proposito di Chiesa nel digitale l’invito è per sabato 13 aprile, ore 10, via Legnano, a Lodi, all’evento promosso dall’Ufficio Comunicazione della Diocesi di Lodi, nel quale interverrà il giornalista Fabio Bolzetta, presidente dell’associazione italiana Web Cattolici, WeCa (sul sito Internet della diocesi è possibile visionare le spiegazioni e qualche video promo di Fabio). È aperto a tutti, volontari delle parrocchie nel settore comunicazione, catechisti… e perché no anche singole persone interessate. In fondo, dal primo vagito, siamo tutti dei comunicatori. Dal Battesimo, siamo Figli di Dio.