La cornice teorica

Didattica e pastorale del Web

La cornice teorica

Alessandra Carenzio, Università Cattolica di Milano

Sono tre i grandi ambiti teorici cui attingiamo nella ricerca: i media social e il Web 2.0, che ci riporta alla questione della comunicazione, la costruzione di comunità e la narrazione.

Rispetto al primo, le piattaforme social su cui lavorerà la ricerca sono diffuse, presenti, parte integrante del vissuto di ognuno di noi e sono utilizzate come occasioni per dire qualcosa e partecipare (anche in senso negativo, pensiamo al clicktivism e allo slacktivism per discutere delle pratiche partecipative al tempo dei social media): Facebook, Twitter, Instagram, blog, app, ma anche formati come selfie, photovoice, mash up nati nel solco dell’incontro tra Rete e linguaggi più noti come fotografia e video. Pur nella sintesi, vorremmo dedicare qualche battuta a questo primo tema, che fa da sfondo alla ricerca.

Facebook è oggi un importante “nodo comunitario” che arruola un buon numero di utenti attivi in Italia (Censis, UCSI 2015) e che rappresenta una vera e propria estensione della propria vita presenziale (non una alternativa) e che più di altri canali social può consentire all’analista e al ricercatore una lettura educativa del medium e delle sue funzioni: ha una storia e un’evoluzione ormai delineate, vive una forte presenza nei discorsi sui media in prospettiva educativa, raccoglie consensi e critiche ed è un luogo densamente frequentato in termini intergenerazionali, fornendo dati importanti sulle relazioni, la socialità, i bisogni esistenziali, le rappresentazioni del mondo. Se il social network di Zuckerberg non identifica una “second life”, parallela (superando l’idea di dualismo digitale come fa notare Jurgenson), ma un’estensione che procede integrandosi al quotidiano (potremmo dire vissuto con il corpo), diventa interessante studiare le esperienze di comunità e pastorale in Facebook, così come le modalità con cui Facebook diventa strumento di promozione pastorale e di rilancio di progettualità pastorali importanti.

Twitter, per quanto meno diffuso (rimandiamo sempre al rapporto Censis, UCSI 2015), sta conquistando una buona posizione in termini di costruzione di una agenda comune e soprattutto ibrida, condividendo notizie, fatti, interpretazioni, messaggi (oltre che Messaggi, pensiamo allo sdoganamento del cinguettio che il Pontefice ha sicuramente contribuito a promuovere con il proprio seguitissimo account). Twitter sta diventando sempre più spesso una sorta di arena che procede intersecandosi con altri eventi dei quali si alimenta grazie al commento, al cross-posting, un vero e proprio “second screen” che accompagna, senza sostituirsi, altri eventi importanti. Anche in questo caso, diventa interessante l’uso pastorale del social per disseminare pratiche, commentare, diffondere informazioni e alimentare dibattiti meno importanti in termini quantitativi, ma non meno significativi in termini qualitativi.

Instagram invece si qualifica come “collettore” di emozioni, stati d’animo e rappresentazioni grazie alle immagini condivise dagli utenti: cosa significa usare Instagram per promuovere la propria comunità? Come possiamo risvegliare il senso di appartenenza attraverso un click e la pubblicazione dei propri scatti? Cosa significa qui “punto di vista” rispetto a quello comunitario, condiviso e collettivo? Numerose sono le esperienze laiche, pensiamo alla recente maratona fotografica lanciata dal Fai per coinvolgere le scuole e promuovere il rispetto del territorio, idea condivisa con Cremit lo scorso anno.

Rispetto al secondo tema, la costruzione di comunità e del senso della comunità sono nodi importanti. Cosa significa comunità? Quali funzioni svolge?

La comunità è un «insieme di soggetti che condividono aspetti significativi della propria esistenza e che, per questa ragione, sono in un rapporto di interdipendenza, possono sviluppare un senso di appartenenza e possono intrattenere tra loro relazioni fiduciarie» (Martini e Torti, 2003).

L’essere comunità non sempre coincide con il sentirsi comunità. In particolare, la letteratura indica che il senso di comunità, presupposto per lo sviluppo della comunità stessa, si articola in:

  • senso di appartenenza (sentirsi parte della comunità),
  • influenza (percezione che il singolo ha di influenzare i processi collettivi che nella collettività prendono vita),
  • soddisfazione dei bisogni (dell’individuo attraverso la comunità e viceversa),
  • connessione emotiva condivisa (Albanesi, 2009).

“Sviluppo di comunità” significa allora potenziare le risorse, l’autonomia e le competenze degli individui e dei gruppi, ma è anche una strategia, un’azione sociale, che mira all’attivazione del soggetto, alla partecipazione per «produrre un miglioramento nella qualità della vita dei soggetti che vivono nella comunità, quindi accrescere la capacità degli stessi di risolvere i loro problemi e di soddisfare i propri bisogni» (Martini e Torti, 2003).

La funzione degli operatori (non solo pastorali) è quella di creare legami, accompagnare le reti, favorirne la costruzione, soprattutto laddove la rete primaria di fronteggiamento viene meno (in altre parole la famiglia e cerchie vicine al soggetto in difficoltà).

Il terzo e ultimo tema è quello della narrazione come strumento generativo (Bruner). La narrazione ha forti implicazioni emotive e conoscitive in funzione dello scambio sociale. Anzi, secondo Bruner la narrazione è un bisogno dell’uomo (il bisogno di ricostruire l’esperienza vissuta per darle un significato), oltre che una sorta di attitudine o predisposizione: organizzare l’esperienza in forma narrativa consente di recuperare la propria soggettività e riconoscere un’intenzionalità. «Sperimentare il mondo come una serie di storie ci aiuta a riconoscere il contesto; ci è di conforto e funge da bussola; contribuisce a spianare ostacoli e impedimenti, riformulandoli come inevitabili sobbalzi lungo un cammino che ci condurrà comunque a un posto migliore, o alla fine della storia». Ecco che lo sviluppo di comunità tramite il Web 2.0, i social media e le narrazioni digitali assume una luce importante, non solo in termini relazionali e comunicativi, quanto in termini di crescita e welfare. Potremmo dire, i social media e i nuovi formati mediali consentono a tutti, anche a chi abitualmente non può partecipare direttamente secondo i canoni tradizionali, di parlare ed esprimersi. Pensiamo al formato del photovoice già citato, ma anche alle diverse forme di digital storytelling nate in California per consentire agli immigrati di raccontare la propria storia, di emergere come soggetti di diritti (Lambert). In questo senso, comunità e media digitali diventano temi interconnessi, che recuperano il senso di appartenenza a un gruppo, la partecipazione, la soddisfazione dei bisogni e la connessione emotiva che avevamo già indicato precedentemente come presupposti per il senso di comunità.

La narrazione, in fondo, è una dimensione presente fin da sempre nella tradizione cristiana: i Vangeli raccontano come i primi discepoli incontrano Gesù e come questo incontro genera la fede. Tramite queste narrazioni il lettore “entra” nelle narrazioni altrui, portandosi dietro la propria, in un intreccio secolare che passa il testimone fino a noi, con i nostri racconti digitali.


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