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La conversione di un cowboy in Red Dead Redemption 2. I videogiochi vanno presi sul serio

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10 Dicembre 2018
La conversione di un cowboy in Red Dead Redemption 2. I videogiochi vanno presi sul serio

La scena è quella che potremmo definire una “scena madre”, crocevia dell’intero racconto. È questo il punto a cui lo spettatore è stato pazientemente condotto. È qui che tutto cambierà, che la storia prenderà la sua giusta tangente e acquisterà il suo senso.

Ci troviamo, dopo l’ennesima avventura, in una stazione ferroviaria isolata nel bel mezzo della prateria. Il protagonista non è più il baldanzoso cowboy che avevamo conosciuto all’inizio, ma un bandito stanco e malato, costretto da una tubercolosi terminale a fare i conti con la sua mortalità. Il capobanda, Dutch, verso il quale aveva riposto tutta la sua fiducia, è ormai fuori controllo. L’unica preoccupazione che è rimasta a quest’uomo morente è mettere in salvo le persone a cui tiene.

Vicino al cowboy siede una suora, una religiosa in partenza per la missione in Messico, incontrata lì per caso. Si conoscono: in passato il bandito aveva dato una mano alla suora per il suo orfanotrofio. Lei lo guarda, e vede in lui tutto il bene che il vecchio cowboy non era mai stato in grado di vedere in sé stesso.

“Io non credo in niente”, confessa Arthur. “Anch’io il più delle volte”, risponde la suora, “ma poi vedo persone come lei e tutto ritrova il suo senso”. “Ho paura”. “Non c’è nulla di cui avere paura. Scommetti sul fatto che l’amore esista davvero e compi un atto d’amore“. E il cowboy va incontro alla sua redenzione.

No, non è una scena di un film di Sergio Leone, accompagnata da una colonna sonora di Morricone. Non è nemmeno un romanzo, né uno di quei serial TV che vanno tanto di moda negli ultimi anni.

La scena appena descritta è una sequenza di gioco di “Red Dead Redemption 2”, videogioco uscito per Playstation 4 e Xbox One lo scorso 26 ottobre. Ambientato nel 1899, questo gioco supera per investimenti e soprattutto per incassi i più grandi kolossal di Hollywood, con 725 milioni di dollari guadagnati nei primi tre giorni di vendita.

“Red Dead Redemption 2” è un videogioco “open world”. Il giocatore può fare virtualmente tutto ciò che vuole, spostarsi a cavallo in un’area sconfinata di decine di chilometri quadrati per andare a caccia, affrontare bande rivali, entrare in un saloon per giocare a poker o scazzottarsi con gli avventori ubriachi. È un’esperienza “immersiva” ai limiti del fotorealismo che si prende molto sul serio.

Il gioco è stato prodotto da “Rockstar Games”, la stessa software house responsabile di titoli come GTA, criticati per la violenza e per la possibilità di compiere un’innumerevole serie di reati. Si tratta di titoli rigorosamente vietati ai minori di 18 anni, pensati per un pubblico adulto, esattamente come serie TV come Breaking Bad o film come Pulp Fiction di Tarantino.

Come il blogger di Famiglia Cristiana Giuseppe Romano invitava a fare cinque anni fa in occasione del lancio di GTA 5, «se a un adulto non piace […] addossarsi il ruolo del delinquente per gioco, libero di non comprare GTA e di sconsigliarlo. Ma non di sottovalutarlo».

Il rischio più grosso di fronte al variegato mondo dei videogiochi è proprio la sottovalutazione da parte di chi non se ne intende, oppure, peggio ancora, guarda al fenomeno come un mero passatempo per ragazzini, uno sterile killer di neuroni. La TV fa meno paura: molti genitori permettono ai figli di poltrire per ore di fronte alla TV, ma appena sentono il “beep” di una Playstation che si accende scatta il panico.

Ma i videogiochi, fenomeno di massa ormai da quarant’anni con i primi Atari domestici, sono quanto di più serio ci possa essere, sia per numeri che per qualità di alcuni prodotti.

Chiariamoci: ci sono videogiochi orribili, ci sono videogiochi assolutamente non adatti per i bambini, ci sono videogiochi – anche quelli apparentemente innocenti pensati per le massaie con il telefonino – che sfruttano meccanismi compulsivi e sviluppano dipendenza. Eppure, nello scenario attuale, vi sono titoli straordinari, poetici, educativi anche quando non didattici.

Educatori, insegnanti, genitori non possono più ignorare l’esistenza di questo mondo, ma devono quanto prima impararne le logiche che lo governano, devono capire quali sono i titoli adatti ai ragazzi e quali no, devono comprendere, quando non possono condividere, i motivi che rendono alcuni titoli attrattivi rispetto agli altri. I rischi della rimozione sono molteplici, dal lasciare che il ragazzo si addentri in mondi che non gli competono all’abuso, fino alla colpevolizzazione aprioristica da parte dei genitori verso ciò che non si comprende.

I videogiochi non sono – e forse non sono mai stati – un fenomeno marginale. Sono un media a sé, con alti e bassi, specificità e pericoli, opportunità e linguaggi propri come cinema e televisione. Le comunità cristiane fin dagli albori del grande e del piccolo schermo hanno fatto sentire la loro presenza per guidare, suggerire ed eventualmente mettere in guardia. Questo sforzo non può venire meno adesso.

Tornando a “Red Read Redemption 2”, nessuno potrà negare che sia un’opera magistrale, anche se non adatta ai minori esattamente come un crudo spaghetti western degli anni ‘70. In questo gioco potremmo fare di tutto: sparare, uccidere, derubare. Potremmo, perché la storia di Arthur, il suo personale cammino di conversione, ci porterà a scegliere scientemente di non farlo, anzi, pure in questo mondo virtuale sentiremo la responsabilità di fare sempre la cosa giusta, anche quando ci costerà fatica, impegno e denaro (virtuale).

In altri videogiochi si accumula denaro e si diventa più forti. In “Red Dead Redemption 2” si diventa più deboli e si dà via la ricchezza acquisita per riparare il maltolto e cercare la redenzione. È qui che sta la cifra del capolavoro.

Andrea Canton

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