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Preti e digitale, questione di bellezza

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19 Aprile 2020
Preti e digitale, questione di bellezza

di Massimo Padula, da Segno nel mondo

 

Messa in diretta streaming, rosari on line, preti dal terrazzo della chiesa con il microfono in mano. Il coronavirus sta cambiando la prassi del sacro. Ma al di là degli evidenti benefici spirituali cela delle insidie. Tra queste: il rischio di dimenticare che «l’Eucaristia essendo un grande dono, il più prezioso, necessita di cure e attenzioni». Sono parole contenute nel documento Celebrare la messa in Tv o in streaming proposto dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei. Si tratta di vademecum rivolto a tutti quei sacerdoti, religiosi e religiose e diaconi che hanno deciso di cimentarsi nelle celebrazioni online. In questo saggio per SegnoWeb (anticipato da un’intervista al Sir https://www.agensir.it/chiesa/2020/04/11/chiesa-e-web-padula-testimoniare-la-bellezza-al-tempo-del-coronavirus/​, Massimiliano Padula, presidente del Copercom, spiega come rapportarsi a una proficua pastorale digitale

 

Si può parlare di bellezza pastorale? O meglio esiste un’estetica dell’agire della Chiesa? Interrogarsi sul senso estetico della religione non è un’operazione concettuale nuova ma riemerge in modo prepotente nei giorni dell’emergenza coronavirus in conseguenza dell’esplosione di un fenomeno parareligioso: il proliferare della presenza di sacerdoti in rete.

Per provare a dimostrare se si tratti di una sorta di nuova “via pulchritudinis” in salsa digitale oppure di una moda passeggera (in molti casi sgraziata), è necessaria una premessa di scenario che arricchisce la riflessione estetica con gli stimoli che provengono dall’analisi sociale e dal pensiero religioso.

La destrutturazione dei tempi e degli spazi religiosi

La presenza online di pratiche religiose è una delle conseguenze dei vari decreti governativi che hanno imposto alla popolazione italiana (e non solo) di trascorrere l’intera giornata in casa. È innegabile, infatti, che la reclusione forzata stia dando uno scossone gigantesco all’umanità. La criticità sanitaria non solo destabilizza certezze acquisite da generazioni, ma riprogramma inevitabilmente i formati dell’esistenza a partire da due macro categorie sociali: lo spazio e il tempo. Se il primo si riduce per la maggior parte delle persone a quello domestico, il secondo si riprogramma annullando i tradizionali tempi sociali a cui si era abituati. Si assiste a una dissoluzione inevitabile dell’agenda socio-temporale che crea un “tempo unico sospeso”, una sorta di calderone nel quale si mischiano e si indeboliscono sia i tempi sociali tradizionali (tempo del lavoro, tempo libero, tempo della formazione) che i cosiddetti interstizi temporali (l’attesa, fretta, la mobilità, la pianificazione del domani, la preghiera).

Stiamo vivendo, pertanto, uno scenario sociale inedito dove il primario e il marginale non esistono più e nel quale avviene una vera e propria disgregazione dell’abitudine. Isolamenti e quarantene obbligano, quindi, l’individuo a fronteggiare la destrutturazione spazio-temporale riposizionando il proprio vissuto e (ri)generando pratiche usuali come, ad esempio, quelle ecclesiali. Pastori a ogni ora del giorno (e della notte) “trasferiscono” chiese, altari e tabernacoli in rete offendo celebrazioni, catechesi e momenti di preghiera. Questa trasposizione avviene attraverso dirette social (facebook, instagram), messaggi istantanei (whatsApp, telegram) o utilizzando una delle tante piattaforme di videoconferenza a disposizione. A queste esperienze pastorali vissute e strutturate online, si aggiunge la condivisione (sempre tramite web) di celebrazioni estemporanee sui terrazzi delle canoniche o di preghiere recitate in una macchina dal volenteroso prete che gira col megafono per le strade cittadine.

Al di là delle ragioni che muovono scelte di questo tipo (la principale è certamente la necessità di farsi presenti spiritualmente), una delle questioni che merita un approfondimento non riguarda la nobile intenzione ma la qualità (estetica e pastorale) della loro messa in scena.

La “messa” in scena

Un approfondimento di questo tipo non può prescindere da una piccola analisi dello scenario relativo al sacro nei media. Il riferimento principale è rappresentato dalla messa trasmessa in televisione che può essere considerata un vero e proprio format nato con l’inizio delle trasmissioni del piccolo schermo. Non a caso, la prima volta andò in onda il 10 gennaio 1954 dalla basilica milanese di San Simpliciano, appena sette giorni dopo l’inizio ufficiale delle trasmissioni della Rai. Da quel momento, ogni domenica e in occasione delle festività religiose più importanti, il telespettatore ha potuto beneficiare di un prodotto costruito appositamente per la programmazione televisiva. Non si tratta, infatti, di semplici messe in tv ma di “video messe”, ovvero di riti mandati in onda secondo le logiche estetiche, spaziali e temporali del piccolo schermo. La mediatizzazione del religioso ha, inoltre, una lunga tradizione. Basti citare due esempi abbastanza recenti. Il primo è la celebre ripresa dell’elicottero bianco con cui il dimissionario papa Benedetto XVI lasciava il Vaticano il 29 febbraio 2013. La scena evocava l’inizio del capolavoro di Fellini, La dolce vita, con il Cristo Redentore trasportato in elicottero nel cielo di Roma. Altro caso è rappresentato dalla suggestiva benedizione Urbi et Orbi di papa Francesco del 27 marzo scorso in una piazza San Pietro per la prima volta vuota, sotto una pioggia battente e un cielo dai colori intensi. In entrambe le situazioni, lo spettatore ha potuto vivere due esperienze reali e autentiche che, grazie alla diretta televisiva, sono risultate dotate di un peculiare fascino narrativo. I due momenti, infatti, si sarebbero svolti comunque ma la possibilità di trasmetterli in televisione, di avere un pubblico ampio che potesse guardarli e percepirli come eccezionali, li ha resi delle vere e proprie cerimonie mediali. Sono diventati – secondo la definizione dei sociologi Dayan e Katz – dei “media events”, ossia delle trasmissioni contraddistinte dalla capacità di stimolare gli spettatori a interrompere la routine quotidiana per godere di un appuntamento irripetibile. Chi li ha guardati ha potuto percepirne i dettagli da diverse prospettive, coglierne i significati profondi, esprimere un giudizio estetico e, infine, farne memoria.

La pastorale grassroots

Oggi il concetto di “grande evento mediale” ha perso rilevanza a causa dell’aumento esponenziale degli spazi di partecipazione e dell’enorme disponibilità di strumenti tecnologici iperconnessi. Ogni individuo ha la possibilità di creare eventi personali, diffonderli a un proprio pubblico da cui potrà ricevere feedback immediati in termini di apprezzamento o disapprovazione. È quello che sta succedendo con le innumerevoli esperienze online che, nelle ultime settimane, caratterizzano la quotidianità pastorale di molti ecclesiastici o religiosi. In molti casi, le narrazioni proposte risultano improvvisate e riflettono la radice amatoriale delle loro pratiche ovvero rientrano in quella che il sociologo francese Patrice Flichy chiama la “sacralizzazione dell’amatore” determinata dalla diffusione e dal facile utilizzo degli apparati tecnologici. Flichy spiega come i media online hanno permesso a un gran numero di individui di vivere più intensamente le loro “passioni ordinarie” contribuendo notevolmente all’ascesa dei dilettanti sulle scene culturali, politiche e scientifiche. Nel nostro caso la dimensione dilettantistica non è riferita al ruolo caratteristico del prete. Egli infatti non può essere considerato né un professionista né un hobbista della religione ma come Alter Christus, come un “chiamato da Dio” per diffondere il suo Verbo. E lo fa – scriveva Giovanni Paolo II – coniugando «la permanente verità del ministero presbiterale con le istanze e le caratteristiche dell’oggi» (Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992). Questo riferimento magisteriale si addice al fenomeno “preti online”, emerso – come si è scritto – dalla necessità di continuare le funzioni religiose ordinarie nonostante la chiusura o l’impossibilità a raggiungere i luoghi canonici della fede. Si sta delineando così una “pastorale dal basso”, le cui conseguenze in termini di resa estetica sono evidentemente discutibili. Esempi di tali storture sono le inquadrature traballanti, le riprese fuori campo, i primi piani esagerati. Emblematico è il caso del sacerdote che attiva lo streaming della messa innescando inconsapevolmente i filtri dello smartphone e ritrovandosi, suo malgrado, in testa un casco da robot e il cappello e gli occhiali neri dei Blues Brothers. Lo scenario descritto rimanda, inoltre, a un concetto archetipico della cultura digitale, quello di “grassroots”, ovvero di una produzione mediale dal carattere spontaneo, autoprodotta da non professionisti ma in grado di creare larga partecipazione. La pastorale grassroots è indice di creatività perché permette al proprio specifico di diffondersi rapidamente e di essere accessibile a un gran numero di persone nello stesso momento e in uno stesso luogo (in questo periodo dalla propria abitazione attraverso un device connesso). Ma al di là degli evidenti benefici spirituali cela delle insidie. Tra queste: il rischio di dimenticare che «l’Eucaristia essendo un grande dono, il più prezioso, necessita di cure e attenzioni». Sono parole contenute nel documento Celebrare la messa in Tv o in streaming proposto dall’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana. Si tratta di vademecum rivolto a tutti quei sacerdoti, religiosi e religiose e diaconi che hanno deciso (o decideranno) di cimentarsi nelle celebrazioni online.

Concludendo: per una pastorale digitale

La nota della Cei è strutturata in tre parti. La prima, definita “indicazioni pratiche”, spiega in sette punti come rimodulare e adattare la liturgia durante la trasmissione online. Sono interessanti alcune espressioni scelte dalla Chiesa italiana, perché segnalano una continuità di “stile” tra quanto accade (o dovrebbe sempre accadere) “in presenza” e quanto si può ricreare nella distanza digitale; tra queste: “lentezza e meditazione” (nel proclamare la Parola di Dio), “dignità e preparazione” (degli spazi liturgici e delle vesti), “formazione” (a una presenza significativa), “diretta e non registrazione” (della celebrazione). La seconda parte include “alcune attenzioni di regia” e suggerisce la metodologia migliore per comporre un’inquadratura con lo smartphone, curare l’audio, le luci e garantire il decoro della celebrazione liturgica. L’ultima parte è una piccola proposta di azione pastorale negli spazi digitali attraverso la presentazione di quattro elementi costitutivi della comunicazione in rete: la condivisione, l’engagement, l’hashtag e il target.

I suggerimenti della Conferenza episcopale italiana sono un utile prontuario per gestire tecnicamente questo “tsunami spirituale” che ha travolto gli account social di tanti fedeli orfani delle celebrazioni in presenza. Ma rischia di essere recepito dai destinatari più come un tutorial pratico che come un incentivo a conoscere, interpretare e interiorizzare i codici identitari della cultura digitale. Il pericolo di ridurre la comunicazione digitale a mera abilità tecnica vale sia per coloro che hanno battuto per la prima volta (e sovente con conseguenze tragicomiche) i territori del web sia per coloro che ne sono esperti e realizzano prodotti mediali apparentemente perfetti, ma a volte privi di spessore pastorale. L’accuratezza formale della propria proposta comunicativa è sicuramente necessaria, ma non per il puro gusto di imitare le forme mediatiche di successo. È indubbio che il linguaggio e l’editing ritmato degli youtuber, ad esempio, offrano un modello attraente per chi voglia suscitare l’attenzione della Rete. Ma l’eccellenza formale se da un lato può creare “personaggi digitali”, dall’altro non è sempre garanzia di qualità pastorale. Rischia, cioè, di ridurre l’esperienza religiosa – per citare Balthasar – a una mera «comunicazione di un sapere», legata appunto a modelli “mondani”, oscurando «la rivelazione dell’azione divina in continuità con la rappresentazione biblica del rapporto Dio-umanità».

Ecco perché una prassi religiosa realizzata in Rete, oltre a fare opportuna attenzione ai particolari tecnico-formali, deve riflettere – usando ancora le parole del teologo svizzero – la “bellezza di Dio”; deve, cioè, superare la logica di una pastorale “della” tecnica comunicativa per proiettarsi nella prospettiva di una pastorale “nella” comunicazione tecnologica (mediata), che metta al centro la bellezza del dato di fede e riesca a incarnarla nel contesto contemporaneo, caratterizzato appunto dalla presenza e dallo sviluppo dei media digitali, dai fattori della convergenza e dell’interattività. Questo cambio di prospettiva può offrire una prima risposta alle domande poste all’inizio di questo scritto: una bellezza pastorale può esistere soltanto se chi la fa è illuminato da un’autentica (e bella) pastoralità, ovvero – scriveva il teologo Sergio Lanza – «da quell’agire rispetto al contesto sociale che si configura come incarnazione dell’esperienza di fede evangelica».

È questo, infine, il presupposto di un’estetica del religioso nel macrocosmo della rete. Perché la bellezza più bella, spiegava in modo illuminante Carlo Maria Martini, «non si dice (né si ostenta) ma si percepisce a partire dalla pace dell’anima sotto lo splendore della luce divina. Per questo Gesù era straordinariamente bello e la sua bellezza si rifletteva sul volto di coloro che erano pronti a seguirlo».

Massimo Padula
docente di Scienze della Comunicazione sociale, Pontificia Università Lateranense e presidente Copercom (Coordinamento delle Associazioni per la comunicazione)

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