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Facebook e i suoi meccanismi, tra modelli culturali e redditività

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19 Aprile 2017
Facebook e i suoi meccanismi, tra modelli culturali e redditività

Social e Bugie: Dal pettegolezzo alle Fake News – seconda parte

di Andrea Tomasi

Leggi la prima parte

Il modello culturale di riferimento di un social come Facebook ostacola chi richiede al gestore di essere tutelato: i motivi di disagio personale sono spesso ignorati, perché considerati di interesse soggettivo, mentre sono accettati solo quelli che rientrano in determinate categorie o sono sostenuti da numerose richieste. Ciò non dipende dalla cattiva intenzione di qualche censore – la cultura della rete anzi rifiuta, almeno a parole, ogni forma di censura – ma più banalmente dal fatto che la gestione delle segnalazioni e il controllo dei contenuti avvengono in modo automatico.

… i motivi di disagio personale sono spesso ignorati, perché considerati di interesse soggettivo…

Pertanto il numero di segnalazioni è considerato segno di un consenso diffuso e condiviso, che rafforza la richiesta se nel contenuto è presente uno dei termini previsti da una “lista nera”.
La censura ufficialmente rifiutata si presenta dunque in modo subdolo e poco trasparente nel momento di includere determinate parole nella lista dei contenuti considerati inaccettabili. La composizione della lista è frutto della cultura prevalente, che in rete vede affermarsi oggi maggiormente la concezione libertaria individuale, centrata su una sorta di anarchia dei desideri, attenta a valori collettivi di benessere, ecologico o salutistico, ma che prescinde dalle sensibilità comunitarie e religiose. Lo possiamo definire “pensiero unico”, per quanto riesce ad affermarsi pervasivamente attraverso la rete, rendendo isolate e poco visibili le posizioni di chi voglia affermare concezioni culturali diverse.  Il resto è opera degli algoritmi che confrontano i testi per trovare le parole incriminate – senza comprenderne il contesto – o analizzano le immagini per riscontrare situazioni illecite.

Facebook, come altri social, non è costruito così come lo vediamo solo per una ragione culturale; il modello economico che rende i social redditizi si basa sul valore del numero di utenti, sul tempo che ognuno di essi passa in rete, sul numero di connessioni che stabiliscono e di interventi attivi – “mi piace” o commenti – che effettuano. Sono fattori che influenzano il valore azionario e permettono di acquisire informazioni personali che incrementano il prezzo dei servizi di promozione pubblicitaria.

Il modello economico su cui i social si sostengono è la causa, ad esempio, della tolleranza con cui essi accettano profili falsi, sia di persone che si nascondono nell’anonimato per non essere chiamati a rispondere delle proprie azioni, sia di minori che a causa dell’età non potrebbero iscriversi regolarmente.

I contenuti che possono ottenere una diffusione “virale”, in questa logica, vengono favoriti, come vengono incoraggiati gli scontri vivaci su temi contrastati, perché moltiplicano i contatti. E quasi sempre ciò significa amplificare all’infinito l’eco delle facezie sterili, dei pettegolezzi vuoti, se non anche degli scontri verbali e delle notizie fasulle che contengano fatti o giudizi in linea con il ”senso comune” prevalente.

Sul cyberbullismo e sull’omofobia sono in discussione in Parlamento due leggi, che in qualche modo si propongono di contrastare la diffusione in rete di affermazioni che suscitino odio o disprezzo. Entrambe le leggi mostrano però due limiti piuttosto seri. Il primo, quello di voler legiferare in modo specifico su aspetti che sono già compresi nella legislazione ordinaria. La diffamazione e l’istigazione alla violenza sono già punite dalle leggi esistenti, e la definizione di nuovi reati d’opinione rischia di affidare alla soggettività del giudice l’interpretazione su quali siano i comportamenti da punire.

Il secondo, quello di creare una mentalità repressiva che finisce per offrire ai gestori dei social ulteriore spazio per rafforzare quel “pensiero unico” che già domina in rete.

Sia chiaro, non si intende minimizzare il fenomeno del bullismo in rete o della violenza verbale purtroppo diffusa, ma solo mettere in evidenza che le leggi in questo ambito, se formulate secondo principi esclusivamente giuridici che non tengono conto della realtà della rete, rappresentano di fatto e impropriamente un puro appello morale, di scarso effetto preventivo e di dubbia efficacia. I tempi dell’intervento legale sono infatti inadeguati rispetto alla tempestività necessaria per contrastare fenomeni che in rete hanno già dispiegato tutta la loro negatività. Occorre prendere atto, io credo, che misure efficaci richiedono un grande sforzo di tutti coloro che hanno un ruolo educativo, a cominciare dai genitori e dalla scuola, e una reale collaborazione da parte dei gestori per rendere la rete un ambiente meglio abitabile perché regolato. E le leggi dovrebbero proporsi di dare ai gestori le regole necessarie, evitando di invocare principi tanto astratti quanto disattesi.

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